Liberazione, 29 giugno 2005
http://www.liberazione.it/giornale/050629/archdef.asp
Monica Lanfranco
 Chi
l'ha raggiunta e l'ha vista dice che, per un attimo, sul suo volto
sempre teso e ansioso si è disegnato un sorriso, un sorriso che per tre
lunghi anni era stato solo un miraggio.
L'incubo non è finito, per
Mukhtar Mai, oggi trentatreenne maestra di una piccolissima zona rurale
del Pakistan, il villaggio di Meerwala nel Punjab meridionale. Tre anni
fa, il 22 giugno del 2002, Mukhtar pagò per lo sgarro del fratello più
piccolo, lo "sfacciato Shakoor", reo di aver frequentato una ragazza di
una casta più elevata.
A lui fu inflitta la sodomizzazione, ma ci
voleva una pena esemplare, per scoraggiare altri eventuali Shakoor,
secondo il consiglio degli anziani. E lo stupro collettivo di Mukhtar
era stata la pena esemplare. Non solo: la violenza di gruppo si era
verificata sotto gli occhi di oltre 200 uomini, un atroce corollario
tribale a cornice dell'abuso.
Mukhtar aveva visto, pochi mesi dopo, i suoi violentatori assolti,
ma oggi ecco lo spiraglio: cinque tra gli stupratori saranno
riprocessati, e quindi c'è speranza. Speranza che giustizia sia fatta,
speranza che la vita dimidiata di questa donna che appare nelle foto
con un'espressione sofferente e salda allo stesso tempo possa prendere
un'altra piega, speranza che, se riconosciuto il reato di stupro, si
possa avviare nel paese un processo che, in tante, le donne pakistane
sognano.
Secondo la Commissione pakistana per la difesa
dei diritti umani nel paese ogni due ore viene violata una donna: nel
Punjab la media sarebbe di quattro stupri ogni 24 ore mentre ogni
quattro giorni si avrebbe una violenza di gruppo. Nel 2004 la polizia
del Pakistan ha ricevuto appena 320 denunce di altrettanti reati
sessuali, e solo 39 uomini, un numero ridicolo, sono stati arrestati,
per poi quasi sempre essere rimessi in libertà. Libertà che, per le
vittime come Mukhtar, significa vivere sotto la minaccia mortale della
vendetta per aver denunciato. Questa donna, che da sola ha messo su due
scuole per bambine, dove insegna loro a leggere e a scrivere, un
privilegio raro nella zone di campagna, volentieri avrebbe fatto a meno
della ribalta mediatica che oggi la circonda.
Ha imparato
a spese del suo corpo e del suo equilibrio, per sempre, che il
patriarcato e il fondamentalismo si alimentano e si fondano sulla
violenza. Dove abbia trovato la forza per resistere alla fortissima
spinta che c'è, per le vittime di stupro, verso il suicidio, non è dato
sapere. Ma di certo la sua storia e il suo dignitoso coraggio sono
serviti e serviranno. Piano piano cominciano a emergere altre vicende
analoghe al caso di Mukhtar. Come quella della denuncia, l'anno scorso,
da parte di una madre dello stupro della figlia minorenne. In una rara
sfida ad una società che tende a scoraggiare le vittime a denunciare
Barkat, la madre della piccola Sharee ha reso pubblico il fatto,
avvenuto in una baraccopoli alla periferia di Lahore. Con l'aiuto di
Ong locali ha organizzato una conferenza stampa per chiedere che lo
stupratore di sua figlia venga punito. «I vicini di casa mi hanno
chiamata bugiarda, mi hanno sputato e lanciato addosso oggetti,
racconta Barkat; l'intera famiglia è terrorizzata, perché potrebbero
attaccarci in massa, ma qui stiamo parlando della vita di mia figlia,
ed io voglio giustizia». Le organizzazioni contro la violenza alle
donne dicono che genitori determinati come Barkat sono rari. Le cause
spesso si trascinano per anni, durante i quali aumentano le pressioni
sulla famiglia della vittima, affinché smetta di "sciorinare i suoi
panni sporchi" in pubblico.
Se la vittima non è in grado
di produrre quattro testimoni maschi che garantiscano del suo buon
comportamento è assai facile che finisca per essere incriminata per
"hudood", che criminalizza il sesso extraconiugale: per tale ‘crimine',
la pena prevista è la morte. Secondo la Commissione sono circa il 50%
le donne stuprate che, dopo la denuncia, vengono incriminate. «Su 75
casi quattro finiscono in tribunale, e forse uno termina con una
condanna dell'aggressore» racconta Fatima Ambreen, coordinatrice di War
Against Rape, la Ong nata nel 1990 da un gruppo di 15 cittadine che ha
oggi sedi nelle maggiori città pakistane. «La gente ha la tendenza a
chiudere gli occhi su qualcosa che ha la disperata necessità di essere
visto, dice Ambreen, perciò dobbiamo rompere il tabù, e mettere fine al
silenzio».
Quello che Mukhtar, Barkat e le altre
coraggiose donne ci stanno chiedendo di ricordare è che colpevole non è
solo chi esegue il delitto, ma anche i mandanti. E chi stupra sa bene
che, più ancora che il togliere la vita, la violazione del corpo di una
donna, di una bambina, di un bambino è il modo più efferato ed efficace
per marchiare del proprio potere la vittima. Il femminismo ha detto a
chiare lettere che la violenza sessuale è questione di relazione di
potere, non di relazione sessuale; è il modo attraverso il quale la
riduzione in minorità di un genere sull'altro segna il confine tra
l'umano e l'animale. Non a caso un detto afferma, in ogni lingua e ad
ogni latitudine, che l'animale uomo è l'unico a mentire, rubare e
stuprare deliberatamente per ottenere ciò che vuole. Marchiare il
territorio, definire il possesso, declinare la subordinazione: questo è
lo stupro. Oggi Mukhtar si è detta fiduciosa nella giustizia, e
determinata a non lasciare il suo villaggio, le sue piccole alunne,
nonostante sia inimmaginabile la fatica che le deve costare. La sua
lotta, però, non è finita.
|